Un sito dedicato all’Andalucia non poteva mancare di una breve introduzione all’arte della Tauromachia. Arte che in Andalucia diviene vera e propria cultura. Diceva Rafael el Gallo, grande torero gitano e sivigliano:
En la vida todo se torea.
E ciò e assolutamente evidente anche in altre forme artistiche tipicamente andaluse come il baile flamenco, el cante hondo, il ballo della Sevillana e, non ultimo, nell’atteggiamento verso la vita in generale.
Le origini: il “toro bravo”
La corrida è un’arte viva e in continua evoluzione. Le sue tappe fondamentali, le sue figure (intese come i toreri più importanti), nonché gli aspetti più meramente tecnici, sono tuttora oggetto di animate discussioni da parte di appassionati più o meno titolati.
Tutto il complesso edificio de las fiestas de toros, come dice El Cossìo (l’enciclopedia taurina), si basa sull’esistenza del toro bravo. Il toro bravo appartiene ad una razza primitiva, che è stata via via estirpata in tutto il resto del mondo, salvo che in terra spagnola, nell’America latina (importata dalla Spagna) e nel sud della Francia dove, però, è presente con una varietà leggermente differente (la razza camarghese).
Giulio Cesare ne parlava nei suoi “Resoconti sulla guerra in Gallia”, come di un animale feroce e possente (“urus”), già allora oggetto di caccia, per così dire, sportiva. La sua presenza è confermata nel neolitico, assieme al bisonte, a numerose varietà di cervi e al cavallo selvaggio. Compare in numerose pitture rupestri in Spagna e Francia.
Questo toro che probabilmente si incrocia con il toro africano, diffuso in Mesopotamia e nel Nordafrica durante il quaternario, sopravvive bene in terra spagnola dove trova un ambiente ideale per affinare e selezionare le sue qualità di ferocia e nobiltà. Sicuramente già con la nascita della pastorizia l’uomo iberico, ma non solo, si era dovuto scontrare con la necessità di riunire e incanalare scontrosi e feroci erbivori con le corna per tenerli in spazi più o meno controllabili. Da qui la naturale esigenza di sviluppare una tecnica per giostrare con le minori conseguenze possibili, tali animali.
I primi toreros
Una affascinante teoria, esposta da José Alameda nel suo interessantissimo libro “El Hilo del Toreo”, per spiegare la particolare predisposizione, tutta spagnola, alla lotta con il toro e che si è andata sviluppando nei secoli, si basa sull’effetto che ha prodotto, in termini di abitudine alla guerra, la lunga permanenza araba nella penisola iberica.
La penisola era un continuo teatro di scontri e battaglie, con numerose compagnie d’armi, spesso “disoccupate” per lunghi periodi. La lotta con il toro bravo diventava al contempo allenamento e svago. Naturalmente le regole erano piuttosto aleatorie e il toro veniva “domato” a colpi di lancia. A tal proposito possiamo ricordare la serie di acqueforti di Goya, “La Tauromaquia”.
Già durante il primo secolo della riconquista, alla corte di don Alfonso il Casto (815), si combattevano tori tutti i giorni. E la figura del matatoros, personaggio che uccideva tori a pagamento, era ben definita nel XIV secolo, quando nel 1385, re Carlos II di Navarra, incaricò due uomini fatti venire dal sud di giostrare e uccidere due tori dinanzi alla corte.
Era un toreo che si realizzava a piedi, tipico delle regioni settentrionali di Navarra, Aragona e pirenaiche in genere.
Il toreo a cavallo: un arte aristocratica
Il toreo a cavallo fa la sua apparizione nel XVI secolo e si diffonde la tecnica capitale della lanzada con la quale il torero a cavallo o a piedi aspetta la carica del toro e lo trafigge con una lancia sul rostro. Il cavallo porta già dei paraocchi.
Nello stesso periodo prende sempre più piede l’arte del rejoneo come naturale conseguenza della presenza di abili cavalieri e agili cavalcature. Rejoneo che trova nel XVII secolo il suo apogeo con l’affermarsi della monta alla jineta, con le staffe corte e il busto del cavaliere eretto, adatta alle caratteristiche del cavallo andaluso, piccolo, leggero e scattante.
Fino alla fine del secolo las fiestas de toros mantengono caratteristiche reali con, unicamente, prove di lanzada e rejoneo, nelle quali si esibiva la nobiltà che dava prova di coraggio e destrezza. Il popolo assisteva, passivo, a questi “tornei”.
La corrida diviene popolare
Il secolo XVIII vede la fine del toreo aristocratico e la sempre maggiore diffusione del toreo popolare al passo con l’evoluzione sociale e politica.
Spesso la corrida avveniva senza un ordine prestabilito con un anarchico succedersi delle suertes e dei personaggi, a piedi o a cavallo, che le eseguivano. Nonostante questo apparente disordine nello svolgimento, la corrida si arricchiva di lati tecnici molto dibattuti dagli esperti dell’epoca e che avrebbero influenzato la sua evoluzione.
Per esempio, la lunghezza della vara (o pica) come problema “tecnico” ci viene tramandato dal picador don Josè Daza, in attività all’inizio del settecento. Daza sottolinea come fosse più utile aspettare il toro a cavallo fermo con una vara più corta di quella regolarmente in uso ( che prevedeva una lunghezza di quattro verghe), dato che l’animale, preparandosi ad incornare il cavallo, riduce la velocità e la forza d’urto.
Sicuramente, sottolinea il Cossìo, l’utilizzo della vara larga (lunga) dimostra l’influenza campera (contadina) in tale colpo e giustifica il fatto che a tutt’oggi la maggior parte dei picadores siano vaqueros o figli di vaqueros (la pica, che richiama la garrocha usata nel campo, deve essere lunga 2 metri e 55-60 centimetri, con una punta triangolare e affilata, lunga non più di 2-3 centimetri).
L’evoluzione moderna
Così, nel corso del XVIII secolo, la corrida diviene sempre più popolare con un pubblico vasto e competente e città come Siviglia, Granada, Zaragoza e Madrid incominciano ad avere vere e proprie temporadas de corridas (stagioni). Si accentua l’attenzione sulla qualità dei tori delle diverse ganaderias.
Tra i toreri esistevano già delle preferenze che in qualche modo condizionavano la scelta del ganado nelle diverse plazas. Per esempio, i tori provenienti da Salamanca e dalla Navarra erano ritenuti più “difficili”, perché famosi per essere più leggeri e rivoltosi.
Famosa la risposta che dette Romero, in presenza di Costillares e Pepe Hillo al direttore di una corrida, con tori castigliani che i suoi compagni presenti si rifiutavano di combattere:
Non ho nessuna difficoltà a farlo a patto che siano tori da pascolo.
Sottolineava il fatto che tori più “istruiti” sarebbero stati sicuramente più pericolosi e che, allo stesso tempo, non faceva distinzione “tecnica” tra tori di diversa provenienza.
La tecnica si evolve
Sulla base delle ancora sensibili differenze regionali dell’arte della tauromachia, nel secolo XVIII, la corrida possiede ancora caratteristiche regionali. Questo era vero anche all’interno della stessa Andalusia, dove i Palomos e i Rodriguez come Joaquin Rodriguez ( Costillares ) famosi a Siviglia, difficilmente sconfinavano fino a Ronda, patria dei Romero con Francisco in testa.
Il più famoso della casata dei Romero passa per essere l’inventore della muleta, anche se la cosa appare imprecisa e improbabile. La muleta ha subito un’evoluzione di almeno due secoli e da un tempo sicuramente anteriore a Romero. Sicuramente però, egli ha contribuito alla sua diffusione e al suo utilizzo.
Costillares sembra però essere stato il primo, ormai verso la fine del XVIII secolo, ad imporre la muleta come strumento di “morte” nella suerte de matar.
La figura del Torero: i più importanti
L’importanza della figura di Costillares non si ferma solo all’esaltazione dell’uso della muleta, all’evoluzione del gioco di capa e all’uso rigoroso e “definitivo” della spada, ma sconfina ben oltre contribuendo in modo fondamentale all’affermazione e al prestigio della figura del torero a piedi.
E’ il 1793 quando Joaquìn Rodrìguez chiede che anche i toreri portino galloni d’argento come, fino ad allora, avevano portato solo i picador… la Maestranza accetta.
Il secolo XIX, orfano dei Romero, Costillares e Pepe Hillo, inizia in totale decadenza per la fiesta nacional, almeno nei primi anni. Sopravissuta allle vicissitudini della guerra civile e alla visione romantica e nostalgica tramandata da Lord Byron, l’arte della corrida viene tenuta in vita da Jerònimo José Candido, genero di Pedro Romero e suo discepolo, che, con figure come Montes, el Chiclanero, Lagartijo, Guerrita y Joselito, ha costituito la “cordata” che ha traghettato la tauromaquia nel XX secolo.
Candido e Romero
Candido, esponente della scuola di Chiclana, è stato il precursore del toreo eclettico, nel quale fondeva al contempo il valore e la licenziosità del sivigliano Pepe Hillo e l’austerità del rondeno Romero. Erede e continuatore ideale dei due grandi predecessori, morì povero a 68 anni (1838), dopo aver toreato fino all’anno prima e aver codiretto la Scuola di Tauromaquia di Siviglia. Tale scuola viene infatti fondata il 28 maggio del 1830 e vede, oltre che Jeronimo Candido come maestro, Pedro Romero nominato “primo” maestro su sua propria e risentita richiesta. Aveva all’epoca 76 anni.
Francesco Montes “Paquiro”
Nel 1830 appare per la prima volta, Francisco Montes (Paquiro), nativo di Chiclana e esponente, per così dire, moderno, della scuola rondena e continuatore ideale del toreo di Candido. Paquiro incarna le caratteristiche e le qualità del torero “moderno”, rendendo più aggraziata la rigorosità rondena, qualità che esalterà durante la sua carriera. Abile di capa, che usava con maestria, non disdegnava il salto alla garrocha y al trascuerno, forte del suo atletismo. Il toreo di capa, era allora, il perno di tutta la lidia, mentre con la muleta si davano giusto due passi per preparare il toro alla morte.
Tutto questo traspare nella sua arguta “Tauromaquia”, pubblicata nel 1836. Nel 1848 si ritirerà dalle arene per poi tornarvi, spinto da esigenze economiche, nel luglio del 1850 a Madrid. In tale occasione verrà ferito gravemente. Dopo una lenta guarigione e un paio di ricadute per infezioni, morirà il 4 aprile del 1851 a 46 anni.
Cuchares e Redondo
Alla scomparsa di Montes segue un periodo di scarso significato per l’evoluzione del toreo, sino alla comparsa di Francisco Arjona in arte Cuchares. Suo contemporaneo e rivale fu Josè Redondo, el Chiclanero, con il quale sviluppò una proficua rivalità. Cuchares ebbe il grande merito di nobilitare il toreo di muleta, che finalmente, nelle sue mani, divenne fine a se stesso e non una semplice preparazione all’uccisione.
Da qui l’espressione popolare, “arte di Cuchares”, per indicare in particolare il toreo di muleta. El Chiclanero fu anch’egli un grande torero, completo ed eclettico, con un notevole seguito e spesso causa di irascibilità da parte di Cuchares, che mal sopportava la sua simpatica esuberanza.
Morì a trentatré anni di tisi al culmine della sua fama. Mentre Cuchares, dopo aver contribuito in modo significativo a spostare il baricentro della corrida verso il terzo di muleta, morirà di peste all’Avana nel 1868 durante una tournè invernale. Cuchares e el Chiclanero inaugurano una tradizione che vede la “rivalità” tra due toreri, dividere l’aficion. Dopo di loro el Tato e el Gordito, Lagartijo e Frascuelo, e dopo un interregno unico di Guerrita, Bombita e Machaquito e, in fine, nel xx secolo, la colossale coppia di Joselito e Belmonte che ci catapulta senza indugio nell’epoca della corrida moderna.
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